Non rimangono frammenti di un’opera persa, gli esperimenti, la lontananza, gli archivi polverosi… Mc Laren I bambini di Terezin, i contadini toscani, Calogero… cortometraggi scomparsi nel tempo ma non nella memoria, restano tracce in un manifesto, in un ricordo di chi lo vide… Il lavoro sul filmato, sulla pellicola, i titoli mobili della Corona cinematografica rientrano nell’estetica del movimento, un dinamismo che porta al poetico-visuale, un senso di “scorrimento” che appartiene intimamente a MgM .
… Dalla scrittura teatrale alla finzione segnica del cartone animato il passo è breve, affidato a “segni ammascherati”, scrive Giovanna Sandri, cangianti e in continua metamorfosi, che nel processo di rappresentazione scenica dal disegno trascorrono nell’animazione e dalla superficie allo schermo
Paola Ballesi, “Opera al bianco” in Marginalia, pag 10
Arte cinema, Magdalo Mussio
Mi è molto difficile ricordare quei tanti piccoli spezzoni di pellicola dove sopra c’era qualcosa che anche allora mi sembrava effimero, al contarrio appunto di quello che si diceva sul cinema come qualcosa che aveva a che fare con la fissione dell’accadere. Avevo proprio la sensazione contraria tanto che, quando vidi, in una rivista che non ricordo, rarissima probabilmente non italiana, alla Nazionale di Firenze, una striscia filmica di Eggeling, la pensai come progettazione, e se poi ho fatto del cinema l’ho sempre pensato con questa obliquità. Un bip di partenza del sonoro mi è sempre sembrato più concreto del momento definitivo della pellicola. In fondo, probabilmente, un sistema di rinviare il “modo” di fare il cinema in quei tempi. Non dico che pensavo a delle alternative molto importanti, ma solo alla pellicola come supporto, non d’immagini documentarie, volti di contadini solcati da rughe o patetici ladri di biclette, ma di quel supporto/pellicola che un po’ troppo bruciato da una luce, o sfregiato dai pattini del proiettore della moviola e le titolazioni, che ti potevano apparire all’improvviso perché messe al posto non giusto o la colonna sfasata che ti dava un rimando ad altro dal compiuto bel film che si potea supporre là dietro. Sono certo di fare una gran confusione; non parlo di un gusto per l’informale o di qualcosa che avevo intravisto negli USA al taglio di tanti spezzoni di films diversi, spezzoni brevissimi o lunghi, e dietro la tela dello schermo, quel solito altoparlante che ti dava la voce del cowboy mentre i due famosi divi si baciavano, parlo del supporto che mi sembrava dovesse essere il protagonista. Uno di questi metraggi lo feci vedere a Lara Vinca Masini. Forse lo ricorda. “Petite guerre” , lo avevo intitolato. Me lo aveva commissionato (o quasi) un gruppo di francesi che s’interessava a queste cose, tra i quali c’era quello Chopin che incideva dischi con i suoni della propria digestione che, con amplificazioni missaggi e altro, ti faceva ascoltare dei rumori che mi sembrava chiamasse biologici, qualcosa del genere, ma non ricordo. Leggi tutto
Avevo graffiato la pellicola, fotogramma per fotogramma, in certe parti. Mentre in altre avevo animato, come si fa tradizionalmente nel cartone animato, sequenze di personaggi e parole che sembravano più ideogrammi che altro, per questo molto banalmente ripetevo una frase di un canto di contadini cinesi intrammezzato a vocalizzazioni di Stokausen riprese da un disco di condanna alla guerra. Doveva essere verso il 1957 o poco più tardi. Il film, una volta spedito non l’ho più rivisto e non ho la minima idea dove sia andato a finire o che uso ne sia stato fatto.
Per questo mi domando ora quanto siano approssimative, quanto lo era probabilmente tutto quel mio lavorare.
Ma un puntiglio forse ragionevole c’è. Come in certi peccatori giustificati. Cerco di ricostruire il perché volevo che il supporto/pellicolanon fosse altro da se stesso e, come amassi più quella fase di progettazione scarabocchiata di segni, parole, direzioni di movimento di macchina, ritagli, battute, piuttosto che il momento successivo, che molto spesso mi sembrava meramente esecutivo. Più tardi ho pubblicato sul Marcatré delle colonne di numeri, dall’alto al basso o da sinistra a destra, ebbene non so spiegarlo (ma forse è facilissimo per altri), è lì che la macchina da ripresa, il supporto/pellicola pienamente realizzato è chi guarda. Come è facile comprendere, un bel fallimento cinematografico. Il Canovaccio della Commedia dell’Arte dava appunti per un successivo momento esecutivo. Io mi son trovato a non amare quel momento, ma pretenziosamente esigere che ognuno dei guardanti avesse nel proprio cervello e negli occhi, una camera e una pellicola. I numeri si leggono e si guardano e se vengono uno dietro l’altro, ti fanno fare la stessa operazione di una proiezione, cioè dell’assitere a una proiezione cinematografica.
Erano i tempi della ricerca interdisciplinare col Marcatré, ma devo confessare che ogni volta che montavo quella rivista mi sormontava nel cervello una ipotesi che sentivo più squisitamente adisciplinare, che altro. E i pezzi che andavo cercando o stimolando dagli autori, non volevano essere provocatori, ma solo di spiazzamento.
Il primo pezzo di Beppe Chiari è stato uno stampato lì, non come musica ma come scrittura. In una pagina c’era scritto “viva la musica”, ma non c’erano nè note, nè dischi. Il primo libro di Pio Torricelli si contava da uno a 5335. Facevo il redattore alla moviola letteraria.
Quando Gelmetti mi chiese degli spezzoni per un suo spettacolo a Palermo (proprio non ricordo il nome) non mi interessai di che cosa si trattava; speravo che quella pellicola perdesse la propria funzione cinematografica all’interno dello spettacolo: bucai, (come avrebbe fatto il vecchio Fontana), i fotogrammi, lasciai qualche volto lampeggiante, graffiai e Gelmetti proiettò. Mi sembra fosse il ’68 (1). Ho parlato dell’esperienza redazionale perchè ricordo che preferivo pubblicare dei progetti/sceneggiatura, piuttosto che mettermi lì a riportare contenuti o descrizioni. Credo di aver pubblicato graficamente “go for your money” e “emoc” (come). Purtroppo non ho più le copie del Marcatré, altrimenti direi i numeri precisi. Ma qualcosa ho riportato nel volume “Scritture” dove ho messo insieme un po’ di lavori che dovrei averti dato.
(1)Magdalo Mussio si riferisce all’opera di Vittorio Gelmetti “La descrittione del Gran Paese”: short per soprano, strumenti, nastro magnetico e due juke-box; testo di Edoardo Sanguineti; film di Magdalo Mussio. L’opera di teatro musicale fu eseguita in prima assoluta al Teatro Biondo di Palermo il 27 Dicembre del 1968, nell’ambito della Quarta Settimana di Nuova Musica.
A questo punto mi rendo ancor più conto della mia incapacità di parlare, cioè di mettere insieme una scheda sulle mie attività cinematografiche. Questo problema del cinema mi è ritornato fuori alla mostra del Bellora, quando qualcuno mi chiese da dove venivano fuori quelle cose che esponevo e parlava di Klaus, ed io ho ripensato subito alla striscia di Eggeling e sentivo come quelle due cose probabili forse avessero significati profondamente dissimili e senza esito. Non saprei dire ma come in pochi momenti mi sono sentito vicino agli spezzoni cestinati dai documentari sui poeti della Lerici, per quella sezione che doveva portare avanti una ricerca che allora con vecchi termini chiamavo “rapporto tra immagine e letteratura”. Le poesie del Cummings, dove le parole si sovrapponevano o si ripetevano nell’andare in sù e giù nello schermo della moviola, nel confondersi e sfocarsi e nel non rispecchiare più una possibile poesia, ma solo rinviarla altrove fuori dall’oggetto stesso cinematografico. Ti parlo del 1963-64, feci un lavoro anche su Lorenzo Calogero. Furono presi da Piccioni, che allora si occupava di queste cose per la TV.
Come si vede le mie esperienze cinematografiche sono anomale. Non ho mai fatto un cumulo di televisori e, accesi tutti sullo stesso canale, ho girato il mio pezzo per dire la banalità dei mass media.
Amo molto il cinema ma non sono riuscito a scoprire il segno allarmante all’interno della sua disciplina, anche quando ho fatto piovere sulla gente, espandendola.
Dopo la mostra di Bellora ho cominciato a ripensarci, e a fare qualche cosa, ma non so dire niente. Ho fatto anche dei films con le produzioni ufficiali e sono andati in giro nelle sale, nel ’71 il “Potere del drago”, nel ’72 “Il reale dissoluto”, nel ’73 “Umanomeno”, tutti fatti con i piedi su due staffe, così so che l’ultimo se l’è preso la cineteca di Parigi, come gli altri han girato il mondo ai soliti premi e festival, ma non li ho seguiti.
Mi dispiace: non mi sono sentito capace di fare una scheda. Penso che realmente il mio cinema è rimasto lì su quelle tavole che, seppur apparentemente possono sembrare un risultato, sono solo un presagio, s’è possibile dire così. Quando tu parli di un racconto senza esiti e di un gioco di rinvii mi sembra che tu abbia compreso esattamente.
Magdalo Mussio, Giugno 1977 (Un appunto per V.F.)
Disegni per l’animazione
I lavori per le animazioni di Magdalo Mussio rivelano lo straordinario intreccio fra progettazione e sabba, in cui mostri, personaggi medioevali, animali fantastici ed elementi scenici dell’altrove ricevono una vita onirica il cui senso c’è e sfugge al medesimo tempo.
Mussio si è dedicato alle animazioni fin dagli anni Quaranta, grazie all’esperienza con Antonio Rubino a Roma e successivamente con Norman McLaren alla National Film Board in Canada. Di questa prima produzione purtroppo non rimane nulla, mentre le realizzazioni degli anni Settanta per la Corona Film sono custodite presso la Cineteca di Bologna.
Film d’animazione:
I ragazzi di Terezin, Lerici editore, Milano, 1962 The golden Kidney Bean, Corona Cinematografica, Roma, 1968 ll potere del drago, Corona cinematografica, Roma, 1971 (nastro d’argento 1972) Il reale dissoluto, Pegaso Audiovisiva, Roma 1972 Umanomeno, Corona Cinematografica, Roma, 1973 (musiche dei Pink Floyd) Film animato per il lungometraggio di Anna Maria Tatò, Doppio sogno del Signor x, Cineteam, Roma, 1978
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